Aci e Galatea
La ricchezza di sorgenti d’acqua dolce nella zona etnea, venne dai Greci spiegata con il mito di Aci e Galatea.
Aci, era un pastorello che viveva, pascolando il suo gregge, lungo i pendii dell’Etna. Di lui era innamorata la bella Galatea che aveva respinto le proposte amorose di Polifemo. Questi, accortosi delle preferenze date da Galatea al pastorello Aci, uccide il suo rivale, nella speranza di conquistare la bella Galatea, una volta eliminato il suo concorrente! Ma, ahimè, l’amore di Galatea per il suo Aci continua sino a dopo la sua morte, lasciando Polifemo sconsolato. La bianca Nereide, sconsolata, con l’aiuto degli Dei, trasforma il corpo morto di Aci in sorgive di acqua dolce, che scivolano giù, lungo i pendii dell’Etna, mormorando suoni melanconici di struggente nostalgia.
Non lontano dalla costa, vicino la località chiamata oggi "Capo Molini", in un luogo poco accessibile da terra e più facilmente dal mare, esiste una piccola sorgiva ferruginosa chiamata dalla gente locale "il sangue di Aci" per il suo colore rossastro.
Notare quale soave spiritualità pervade questa storia che non spiega nient’altro che un fenomeno geologico. Nella località chiamata oggi "Capo Molini" esistette un modesto villaggio chiamato, in memoria del pastorello del mito greco, Aci. Nell’XI° sec. d.c.d.C.D.C. un terremoto distrusse il villaggio, provocando l’esodo dei sopravvissuti, i quali fondarono altri centri nei dintorni. In memoria del nome della loro città d’origine, i profughi vollero chiamare i nuovi centri col nome di Aci, al quale fu aggiunto in seguito un appellativo per distinguere un villaggio dall’altro: così Aci Castello (per un castello costruito su di un faraglione prodotto da un’eruzione sottomarina che poi fu raggiunto da una colata lavica nell’XI sec., trasformandolo in un promontorio); Acitrezza (per la presenza di tre faraglioni antistanti il Paese); Aci Bonaccorsi, Aci Catena, Aci S. Antonio, Aci Platani, Aci Sanfilippo.
Aci, era un pastorello che viveva, pascolando il suo gregge, lungo i pendii dell’Etna. Di lui era innamorata la bella Galatea che aveva respinto le proposte amorose di Polifemo. Questi, accortosi delle preferenze date da Galatea al pastorello Aci, uccide il suo rivale, nella speranza di conquistare la bella Galatea, una volta eliminato il suo concorrente! Ma, ahimè, l’amore di Galatea per il suo Aci continua sino a dopo la sua morte, lasciando Polifemo sconsolato. La bianca Nereide, sconsolata, con l’aiuto degli Dei, trasforma il corpo morto di Aci in sorgive di acqua dolce, che scivolano giù, lungo i pendii dell’Etna, mormorando suoni melanconici di struggente nostalgia.
Non lontano dalla costa, vicino la località chiamata oggi "Capo Molini", in un luogo poco accessibile da terra e più facilmente dal mare, esiste una piccola sorgiva ferruginosa chiamata dalla gente locale "il sangue di Aci" per il suo colore rossastro.
Notare quale soave spiritualità pervade questa storia che non spiega nient’altro che un fenomeno geologico. Nella località chiamata oggi "Capo Molini" esistette un modesto villaggio chiamato, in memoria del pastorello del mito greco, Aci. Nell’XI° sec. d.c.d.C.D.C. un terremoto distrusse il villaggio, provocando l’esodo dei sopravvissuti, i quali fondarono altri centri nei dintorni. In memoria del nome della loro città d’origine, i profughi vollero chiamare i nuovi centri col nome di Aci, al quale fu aggiunto in seguito un appellativo per distinguere un villaggio dall’altro: così Aci Castello (per un castello costruito su di un faraglione prodotto da un’eruzione sottomarina che poi fu raggiunto da una colata lavica nell’XI sec., trasformandolo in un promontorio); Acitrezza (per la presenza di tre faraglioni antistanti il Paese); Aci Bonaccorsi, Aci Catena, Aci S. Antonio, Aci Platani, Aci Sanfilippo.
Colapesce
Ci fu una volta a Messina un giovane pescatore bello e forte, chiamato Cola. Nessuno meglio di lui sapeva maneggiare il remo, e la sua barca volava sulle onde come un uccello, vincendo al corso gli stessi delfini. Il mare era la sua casa e la sua piazza; vi passava i giorni e le notti, avendo per amici i pesci che gli guizzavano intorno e per compagne le stelle che gli rinfrescavano gli occhi ansiosi e gli insegnavano la via. A lungo andare questa amicizia del mare gli tolse dal cuore ogni altro affetto, sicché non cercò più né uomo né donna, e dimenticò madre e fratelli.
Nelle notti silenziose, piene soltanto delle risa e dei sospiri dei flutti, egli conobbe le ninfe marine dagli occhi come le stelle, e le sirene dal corpo di serpente. I loro canti e i loro vezzi lo incantavano, ma com'egli cercava di afferrarle esse sempre gli sfuggivano, sparendo con un trillo nel mare. Ammaliato egli ficcava giù gli occhi, e alla vista gli si paravano meravigliosi spettacoli che più lo turbavano e lo attiravano: giardini di corallo, palazzi di cristallo, saloni tutti scintillanti d'oro dove donne bellissime dolcemente danzavano.
Questa febbre continua gli tolse la pace e il sonno, e lo fece diventare più solitario e più triste di prima. Restava lungamente fiso con gli occhi incantati, e non sapeva più dove volgere la sua barca. Sentiva nelle pause delle onde musiche che salivano dagli abissi del mare, e le sirene affacciandosi lo chiamavano ripetutamente:
- Cola! Cola! perché non vieni a trovarci?
Non potendo più resistere, egli si gettò nell'acqua, e nuotando disperatamente scandagliò tutte le profondità del mare. Ciò che egli vide nessuno lo seppe mai; ma quando ritornò a galla il suo viso era pallido come quello dei morti e nei suoi occhi c'era il ricordo delle cose spaventevoli e meravigliose viste dove nessuno era mai stato. Da quel giorno i suoi occhi ebbero un inusitato splendore, e il suo viso una nuova bellezza: ma egli non parlò più e come vedeva da lungi un essere umano via fuggiva con la sua barca, e a un tratto spariva nei frutti. Per questo lo chiamarono Cola Pesce, e la sua fama si sparse per tutta l'isola.
Ora un giorno capitò a Messina il Re Federico. Aveva con sé la figliola bella come un raggio di sole, e gran seguito di baroni e cavalieri tutti lucenti d'oro e d'argento. Egli viaggiava la Sicilia per cercare alla sua figliola un marito degno di lei, bello e prode, e bandiva giostre e tornei. Ma nessuno ancora era piaciuto alla superba fanciulla, e molti erano morti per lei in avventure e imprese impossibili.
- lo mi darò - ella diceva - a chi non avrà più niente da negarmi.
Sentito di Cola Pesce, ella volle conoscerlo e per ordine del Re barche e navigli corsero per ogni dove il mare a cercare l'uomo meraviglioso. Finalmente egli fu trovato, e condotto alla presenza della fanciulla. Guardando il viso bello del pescatore ella ebbe un fremito, e gli occhi di lui a vederla si accesero.
- È vero - chiese le Reginetta con la voce tremante - che tu vivi negli abissi del mare, amando le sirene e cavalcando i tritoni?
Cola sorrise e la fissò senza rispondere.
- Ebbene - chiese ancora la fanciulla - che faresti tu per me?
- Tutto - rispose Cola.
Ella tolse dalle mani del Re la coppa d'oro e la buttò nel mare, e le onde si torsero per lasciarla affondare.
- Se tu me la riporti - disse - ti darò la mia bocca a baciare.
Cola gettò un salto e sparì nei flutti. Un grande silenzio si fece a riva, e tutti attesero frementi. Finalmente le onde si mossero, si gonfiarono e Cola apparì levando alto nel sole la coppa d'oro. Un clamore lo salutò; ma la fanciulla tutta pallida rise, prendendo la coppa dalle mani del pescatore:
- Come vuoi, o Cola, ch'io possa amarti?
E Cola sorrise, guardandola fiso negli occhi. La fanciulla si sganciò dai fianchi la cintura d'oro e di diamanti e la buttò nel mare, e le onde gorgogliarono per lasciarla passare.
- Se tu me la riporti - disse - io mi farò da te abbracciare.
Senza nulla dire, Cola si slanciò e sparì. Un lungo fremito corse la folla, e la superba fanciulla sentì tremare il suo cuore. Dopo lunga attesa le onde si agitarono nuovamente e Cola riapparve, tenendo nella mano la preziosa cintura. Un urlo di gioia lo salutò, e tutti gli occhi si volsero alla superba fanciulla. Ma ella tutta pallida rise, prendendo la cintura dalle mani del pescatore:
- Come vuoi, o Cola, ch'io possa amarti?
E Cola nulla rispose, guardandola triste negli occhi. Ella si tolse dal dito il piccolo anello e lo buttò nel mare, e nessuno s'accorse dove mai cadesse.
- Se tu me lo riporti - disse, con negli occhi un meraviglioso splendore - io sarò tua sposa.
Un mormorio minaccioso s'udì dalla folla, e gli stessi baroni gridarono a Cola che non più s'arrischiasse:
- O temerario, non cercare la morte!
Ma Cola s'era slanciato, e lungamente si videro, dov'egli era sparito, fremere e spumeggiare le onde.
Molto tempo passò e Cola non ritornò più. Invano la folla attese, invano gli occhi della superba fanciulla interrogarono ansiosi il mare; e molto ella pianse, perché molto amava il pescatore meraviglioso ch'era perito per lei.
E ancor oggi in fondo allo stretto di Messina, Cola Pesce vaga disperato cercando l'anello della principessa; ma l'anello è troppo piccolo, e troppo grande è il mare.
Nelle notti silenziose, piene soltanto delle risa e dei sospiri dei flutti, egli conobbe le ninfe marine dagli occhi come le stelle, e le sirene dal corpo di serpente. I loro canti e i loro vezzi lo incantavano, ma com'egli cercava di afferrarle esse sempre gli sfuggivano, sparendo con un trillo nel mare. Ammaliato egli ficcava giù gli occhi, e alla vista gli si paravano meravigliosi spettacoli che più lo turbavano e lo attiravano: giardini di corallo, palazzi di cristallo, saloni tutti scintillanti d'oro dove donne bellissime dolcemente danzavano.
Questa febbre continua gli tolse la pace e il sonno, e lo fece diventare più solitario e più triste di prima. Restava lungamente fiso con gli occhi incantati, e non sapeva più dove volgere la sua barca. Sentiva nelle pause delle onde musiche che salivano dagli abissi del mare, e le sirene affacciandosi lo chiamavano ripetutamente:
- Cola! Cola! perché non vieni a trovarci?
Non potendo più resistere, egli si gettò nell'acqua, e nuotando disperatamente scandagliò tutte le profondità del mare. Ciò che egli vide nessuno lo seppe mai; ma quando ritornò a galla il suo viso era pallido come quello dei morti e nei suoi occhi c'era il ricordo delle cose spaventevoli e meravigliose viste dove nessuno era mai stato. Da quel giorno i suoi occhi ebbero un inusitato splendore, e il suo viso una nuova bellezza: ma egli non parlò più e come vedeva da lungi un essere umano via fuggiva con la sua barca, e a un tratto spariva nei frutti. Per questo lo chiamarono Cola Pesce, e la sua fama si sparse per tutta l'isola.
Ora un giorno capitò a Messina il Re Federico. Aveva con sé la figliola bella come un raggio di sole, e gran seguito di baroni e cavalieri tutti lucenti d'oro e d'argento. Egli viaggiava la Sicilia per cercare alla sua figliola un marito degno di lei, bello e prode, e bandiva giostre e tornei. Ma nessuno ancora era piaciuto alla superba fanciulla, e molti erano morti per lei in avventure e imprese impossibili.
- lo mi darò - ella diceva - a chi non avrà più niente da negarmi.
Sentito di Cola Pesce, ella volle conoscerlo e per ordine del Re barche e navigli corsero per ogni dove il mare a cercare l'uomo meraviglioso. Finalmente egli fu trovato, e condotto alla presenza della fanciulla. Guardando il viso bello del pescatore ella ebbe un fremito, e gli occhi di lui a vederla si accesero.
- È vero - chiese le Reginetta con la voce tremante - che tu vivi negli abissi del mare, amando le sirene e cavalcando i tritoni?
Cola sorrise e la fissò senza rispondere.
- Ebbene - chiese ancora la fanciulla - che faresti tu per me?
- Tutto - rispose Cola.
Ella tolse dalle mani del Re la coppa d'oro e la buttò nel mare, e le onde si torsero per lasciarla affondare.
- Se tu me la riporti - disse - ti darò la mia bocca a baciare.
Cola gettò un salto e sparì nei flutti. Un grande silenzio si fece a riva, e tutti attesero frementi. Finalmente le onde si mossero, si gonfiarono e Cola apparì levando alto nel sole la coppa d'oro. Un clamore lo salutò; ma la fanciulla tutta pallida rise, prendendo la coppa dalle mani del pescatore:
- Come vuoi, o Cola, ch'io possa amarti?
E Cola sorrise, guardandola fiso negli occhi. La fanciulla si sganciò dai fianchi la cintura d'oro e di diamanti e la buttò nel mare, e le onde gorgogliarono per lasciarla passare.
- Se tu me la riporti - disse - io mi farò da te abbracciare.
Senza nulla dire, Cola si slanciò e sparì. Un lungo fremito corse la folla, e la superba fanciulla sentì tremare il suo cuore. Dopo lunga attesa le onde si agitarono nuovamente e Cola riapparve, tenendo nella mano la preziosa cintura. Un urlo di gioia lo salutò, e tutti gli occhi si volsero alla superba fanciulla. Ma ella tutta pallida rise, prendendo la cintura dalle mani del pescatore:
- Come vuoi, o Cola, ch'io possa amarti?
E Cola nulla rispose, guardandola triste negli occhi. Ella si tolse dal dito il piccolo anello e lo buttò nel mare, e nessuno s'accorse dove mai cadesse.
- Se tu me lo riporti - disse, con negli occhi un meraviglioso splendore - io sarò tua sposa.
Un mormorio minaccioso s'udì dalla folla, e gli stessi baroni gridarono a Cola che non più s'arrischiasse:
- O temerario, non cercare la morte!
Ma Cola s'era slanciato, e lungamente si videro, dov'egli era sparito, fremere e spumeggiare le onde.
Molto tempo passò e Cola non ritornò più. Invano la folla attese, invano gli occhi della superba fanciulla interrogarono ansiosi il mare; e molto ella pianse, perché molto amava il pescatore meraviglioso ch'era perito per lei.
E ancor oggi in fondo allo stretto di Messina, Cola Pesce vaga disperato cercando l'anello della principessa; ma l'anello è troppo piccolo, e troppo grande è il mare.
Pracchio
Nel 1708, quindici anni dopo il terribile terremoto che aveva raso al suolo Catania, un’epidemia dimezzò l’ancora esigua popolazione catanese. A quei tempi la città era piccola, angusta e terribilmente sporca. Il quartiere del Carmine, sorto dopo il 1693 fuori la Porta di Aci, era detto pracchio appunto per la sua sporcizia. La situazione igienico-sanitaria sfuggiva di mano al Senato. Non si riusciva a porre un serio freno al dilagante sudiciume che a sua volta era causa di malattie, di epidemie. Il grave stato di cose indusse allora il Senato a "fare reformare l’antiche o aumentare le norme che regolavano l’officio del Mastro di Mondezza", il quale, a sua volta, dipendeva direttamente da un Patrizio incaricato di controllare la situazione igienica della città. Il Mastro di mondezza aveva il diritto di "promulgare bandi o comandamenti secondo le occorrenze". Le norme erano numerose e abbastanza esplicite. Ai cittadini fra l’altro era proibito di "gettare sterco e mondezze per le pubbliche strade, ma appoggiarle alle proprie mura al fine di poterle trasportare fra il giro di giorni 15 nella nuova strada del Fortino; o pure nel fosso grande vicino al bastione antico di S.Barbara vicino la casa dé Teatini o altrove". Poi le regole di igiene e di pulizia urbana divennero più drastiche e si estesero in altri settori: fu vietato, "per l’incomodo e detrimento che apportano al pubblico della comune salute, la "retina" delle mule per le vie della città, nonché il vagare di porci, oppure far bagnare gli animali -cavalli o muli- in riva al mare". Il Patrizio, in sostanza, doveva vigilare affinché le bestie da carico non girassero per la città, ma si limitassero a percorrere le strade più corte per attraversarla. A cavalli e muli era, infatti, vietato "passare di giorno per il Corso S.Filippo, piano di S.Agata, Quattro Cantonere", ed era invece fatto obbligo di "andar correndo per la città". Un mestiere difficile quello della bestia, nel 700 catanese.
Il Mago Elidoro e u Liotru
Una domanda alla quale la maggior parte dei catanesi non saprebbe rispondere è quella relativa alla origine del nomeLiotru o Diotru, che dir si voglia, attribuito da antichissimi tempi all'elefante di pietra lavica che adorna la monumentale fontana di Piazza Duomo. Perchè mai, dunque, il vetusto pachiderma, elevato al massimo onore di simbolo della Città, viene indicato, ancora oggi, con tale nome? Gli storici riferiscono che esso esercitò sempre nella fantasia del popolo uno strano e misterioso senso di suggestione. Anzi, la più attendibile tradizione, lo fa ritenere, originariamente, oggetto di culto in un tempio di riti orientali della Città. Precipitato dal suo altare ai primordi del Cristianesimo, venne portato fuori le mura, dove rimase per più secoli. Chi tentò, invano, di conservare al vetusto idolo gli onori di un tempo, fu, nella seconda metà dell'VIII secolo, un famosissimo mago: Eliodoro, altrimenti detto Diodoro, Liodoro, Lidoro, ed anche Teodoro.
Egli, con i suoi incantesimi (...vir magica arte imbutus, miranda prestigiorum machinatione...), secondo la leggenda, tramutava gli uomini in bestie e faceva apparire le cose lontane improvvisamente presenti.
Essendosi, però, burlato anche degli esponenti della Città, questi decisero di condannarlo a morte. Ma, inutilmente, giacchè egli, grazie ai suoi diabolici poteri, riuscì a scampare dalle mani del carnefice: si fece portare velocemente dagli Spiriti per aria in Costantinopoli e, con la stessa celerità, restituire in Catania. Ingannato dal prodigio, il popolo gli tributò onori quasi divini, che ottennero l'effetto di renderlo ancor più temerario.
Di Eliodoro o Teodoro (...Theodorus, aspectu deformis, natione Iudaeus e post Simonem magum nulli in arte magica secundus...) la tradizione popolare ha tramandato il ricordo di altri mirabolandi fatti.
Una volta, per esempio, vuolsi che egli offrisse ad un giovinetto un velocissimo cavallo, per fargli ottenere la palma nei giochi circensi. Ma, dopo la vittoria, il destriero disparve, non essendo che un demonio in quelle sembianze.
Eliodoro venne per tale ragione condotto in carcere, ma, anche questa volta, riuscì a riguadagnare la libertà, corrompendo le guardie mediante l'offerta di tre false libbre d'oro: una grossa pietra, cioè, dall'apparenza d'oro, che, poco dopo, riacquistò la sua forma naturale.
Tale frode non fu la sola che egli commise: alla stessa maniera si videro portar via tanta roba molti venditori della città.
Reso edotto dei gravissimi e continui fatti che turbavano la quiete dei catanesi, l'imperatore Costantino decise allora di far partire per Catania il suo ministro Eraclio, con l'incarico specifico di condurgli il mistificatore. Ma, quando Eraclio giunse alla mèta ed inviò i suoi armati per arrestare il mago, questi, con i suoi tanti raggiri, li indusse a prendere un bagno: -"Andiamo, dunque, al bagno - disse loro - affinchè ritorniate alle navi con forze rinnovate". Appena i soldati si immersero nell'acqua avvenne un altro grande prodigio: tutti quanti, lui compreso, si trovarono istantaneamente a Costantinopoli, nel bagno dell'Imperatore.
Condannato a morte da Costantino, nel momento in cui stava per eseguirsi la sentenza, egli domandò in grazia una catinella d'acqua: vi tuffò la testa e sparì misteriosamente, dicendo: - " Chi mi vuole, mi cerchi in Catania ! ".
Al colmo del furore, l'Imperatore ordinò allora ad Eraclio di ripartire subito, affinchè, con ogni mezzo, riacciuffasse il prigioniero. Ritrovato, quest'ultimo non oppose alcuna resistenza: docile e silenzioso, s'imbarcò, insieme all'inviato dell'Imperatore, su di una nave, da lui stesso costruita per via d'incantesimi, la quale, in un giorno e senza aiuto di remi, li trasportò a Costantinopoli, svanendo subito, appena approdata.
Avvertita dell'arrivo, la moglie di Eraclio mosse, ansiosa, ad incontrarlo, ma, quando scorse l'infame mago, accesa di sdegno, lo apostrofò:- " Uomicciolo sporchissimo, tu sei quello che hai fatto viaggiare mio marito in Sicilia con tanto travaglio?! ". E in ciò dire gli sputò in faccia.
Eliodoro ebbe un ghigno satanico: - " Ti farò ben presto pentire di avermi ingiuriato, e con tua somma vergogna ! " - la minacciò. E mantenne, infatti la promessa: in quel momento stesso, in tutta la città e vicinanze, per un raggio di oltre venti miglia, si estinse ogni fuoco, senza che alcuno riuscisse a ottenere nemmeno una scintilla. La confusione, come è da immaginarsi, fu enorme, ma grande fu altresì la meraviglia, quando si vide il fuoco generato solo dalle parti posteriori della moglie di Eraclio.
Per tre giorni consecutivi, fu d'uopo che essa rimanesse nella pubblica piazza, affinchè ognuno si provvedesse della necessaria fiamma. Nuovamente ricondotto dinanzi al carnefice, Eliodoro, mentre stava per ricevere il colpo di grazia, si rese straordinariamente piccolo: entrò per la manica destra del carnefice e ne uscì dall'altra, gridando: " Scampai la prima volta; questa è la seconda. Se mi volete, cercatemi a Catania! ". E disparve ancora, facendosi trasportare dagli spiriti nella inquieta città.
Ma a liberare quest'ultima dai suoi sortilegi, accorse, finalmente, il vescovo Leone detto il Taumaturgo (...sed tandem à Leone Catanensi Episcopo divina virtute ex improviso captus, frequenti in media Urbe populo, in fornacem igneam injextus, incendio consumptus est...).
Egli, infatti, dopo avere effettuata la distruzione del tempio consacrato alle due grandi divinità muliebri, Demetra e Cora, fino a quei tempi tanto venerate a Catania, decise di stroncare definitivamente la magìa giudaica di cui era esponente Eliodoro. Convocati perciò i fedeli nelle vicinanze delle Terme Achillee, dinanzi alla cappelletta eretta in onore di Maria Vergine, celebrò una solenne messa propiziatoria.
Si vuole che, oltre a molti Giudei e Gentili, si mischiasse tra la folla anche il temerario Eliodoro, il quale si mise a disturbare il sacro rito in tutti i modi: ingombrando la mente dei fedeli con allucinanti visioni; facendo apparire i calvi improvvisamente capelluti, e viceversa; altri con corna di cervo, di bue, di caprone, oppure con orecchie d'asino, con barba di montone, con rostro di uccello, con denti di cinghiale e altre stravaganti sembianze, in modo da generare il riso. Per ultimo, pretese di provocare il santo vescovo al ballo. Ma le sue nefande arti a ciò non valsero: terminata la messa, San Leone gli si avvicinò e gli gettò al collo la stola: "... Per Christum Dominum meum,nihil hic valebunt magicae artes tuae: deduxitque ad locum, cui nomen Achilleus, ibique flammis ad urendum dedit. Nec manum tuam, quae illaesa cum orario, mansit, ante subduxit, quam miser ille in cineres redigeretur. Sic itaque mos vir factissimus praesenti ope ab illius importunissimi magi periculis eripuit". Eliodoro, infatti, così esorcizzato, venne da S. Leone attratto nell'ardente fornace approntata in una fossa vicina alla chiesa. E mentre il Santo "...se ne uscì illeso, senza che il fuoco bruciasse, né denigrasse la stola e le vesti ", il mago divenne un mucchio di cenere, in men che non si dica. Il giusto castigo inflitto a Eliodoro è ricordato, ancora oggi, da due piccole tele che si conservano, rispettivamente, nella sacristia della Cattedrale e nel nostro Museo Civico (sala 28, terzo scomparto): la prima, dovuta al pittore trapanese Vincenzo Errante (sec. XIX); la seconda, proveniente dal monastero dei Benedettini, attribuita, da taluni, a Giuseppe Patania (pittore palermitano della fine del Settecento - inizio dell'Ottocento), da altri, al Velasques siciliano.
Quanto all'elefante che - sempre secondo la tradizione popolare - aveva servito ai prestigi del mago, quale portentosa cavalcatura per i suoi rapidissimi viaggi da Catania a Costantinopoli e viceversa, dopo essere stato lungamente dimenticato, venne ricondotto in città dai padri Benedettini del monastero di S. Agata e posto ad adornare un antico arco o porta, detta, appunto, "di Liodoro" o "di lu Liòduro".
Nel 1508, però, essendo stato completato il vecchio Palazzo di Città, la porta predetta, che si trovava alla sua destra, venne abbattuta e l'elefante posto sull'alto del prospetto della parte nuova dell'edificio, a settentrione, quale glorioso emblema della città, con la seguente iscrizione: Ferdinandus. Hispaniae utriusque. Siciliae. Rege - Elephans erectus fuit a Cesare Jojenio - Justitiario - MDVII
Dopo il terremoto del 1693, l'elefante giacque ancora in abbandono, finchè, nel 1727, l'olandese Filippo d'Orville, trovandosi di passaggio da Catania, sollecitò che esso venisse riinnalzato, insieme all'obelisco egizio che adesso lo sormonta.
Il voto si compiva nel 1736, ad opera di Giambattista Vaccarini, il quale, con la visione berniniana di Piazza della Minerva di Roma dinnanzi agli occhi, realizzò con essi la monumentale fontana di Piazza Duomo. Una iscrizione, a tergo del monumento, ricorda ai catanesi: " D.O.M. - Vetus Catanae insigne - elephas - ab aequitate prudentia docilitate - Urbem clarissimam eiusque cives - commendat - hoc ut lateret neminem eiusdem - ex aetneo lapide simulacrum - Heliodori olim praestigys celebre - S.P.Q.C. - Docto oneri substratum voluit - Anno MDCCXXXVI".
Oggetto di frizzi e motti, non sempre benevoli, fin da quando gli venne assegnato l'attuale posto, al "Diotru" o "Liotru", ancora ai tempi nostri, i poeti dialettali della città rivolgono invocazioni e preghiere di un genere tutt'affatto differente da quello usato ai tempi del mago Eliodoro.
In conclusione: astraendo dalla leggenda, nella figura di Eliodoro si può anche vedere l'ultimo sprazzo di quel pensiero filosofico che nella nuova dottrina ravvisava i germi che furono causa del decadimento delle antiche virtù.
E se, come si crede, l'elefante, rovesciato fuori la cinta delle mura, continuò a essere oggetto di culto da parte degli abitanti del bosco, assurgendo a simbolo della restaurazione dell'antico pensiero religioso tentata da Eliodoro, non v'è dubbio che fra quest'ultimo e le ancora paganeggianti popolazioni si sia stabilita quella corrente spirituale comune per la quale il popolo, scomparso Eliodoro, continuò a ricordarne il nome in quello che fu l'emblema della vecchia fede: il "Liotru".
Egli, con i suoi incantesimi (...vir magica arte imbutus, miranda prestigiorum machinatione...), secondo la leggenda, tramutava gli uomini in bestie e faceva apparire le cose lontane improvvisamente presenti.
Essendosi, però, burlato anche degli esponenti della Città, questi decisero di condannarlo a morte. Ma, inutilmente, giacchè egli, grazie ai suoi diabolici poteri, riuscì a scampare dalle mani del carnefice: si fece portare velocemente dagli Spiriti per aria in Costantinopoli e, con la stessa celerità, restituire in Catania. Ingannato dal prodigio, il popolo gli tributò onori quasi divini, che ottennero l'effetto di renderlo ancor più temerario.
Di Eliodoro o Teodoro (...Theodorus, aspectu deformis, natione Iudaeus e post Simonem magum nulli in arte magica secundus...) la tradizione popolare ha tramandato il ricordo di altri mirabolandi fatti.
Una volta, per esempio, vuolsi che egli offrisse ad un giovinetto un velocissimo cavallo, per fargli ottenere la palma nei giochi circensi. Ma, dopo la vittoria, il destriero disparve, non essendo che un demonio in quelle sembianze.
Eliodoro venne per tale ragione condotto in carcere, ma, anche questa volta, riuscì a riguadagnare la libertà, corrompendo le guardie mediante l'offerta di tre false libbre d'oro: una grossa pietra, cioè, dall'apparenza d'oro, che, poco dopo, riacquistò la sua forma naturale.
Tale frode non fu la sola che egli commise: alla stessa maniera si videro portar via tanta roba molti venditori della città.
Reso edotto dei gravissimi e continui fatti che turbavano la quiete dei catanesi, l'imperatore Costantino decise allora di far partire per Catania il suo ministro Eraclio, con l'incarico specifico di condurgli il mistificatore. Ma, quando Eraclio giunse alla mèta ed inviò i suoi armati per arrestare il mago, questi, con i suoi tanti raggiri, li indusse a prendere un bagno: -"Andiamo, dunque, al bagno - disse loro - affinchè ritorniate alle navi con forze rinnovate". Appena i soldati si immersero nell'acqua avvenne un altro grande prodigio: tutti quanti, lui compreso, si trovarono istantaneamente a Costantinopoli, nel bagno dell'Imperatore.
Condannato a morte da Costantino, nel momento in cui stava per eseguirsi la sentenza, egli domandò in grazia una catinella d'acqua: vi tuffò la testa e sparì misteriosamente, dicendo: - " Chi mi vuole, mi cerchi in Catania ! ".
Al colmo del furore, l'Imperatore ordinò allora ad Eraclio di ripartire subito, affinchè, con ogni mezzo, riacciuffasse il prigioniero. Ritrovato, quest'ultimo non oppose alcuna resistenza: docile e silenzioso, s'imbarcò, insieme all'inviato dell'Imperatore, su di una nave, da lui stesso costruita per via d'incantesimi, la quale, in un giorno e senza aiuto di remi, li trasportò a Costantinopoli, svanendo subito, appena approdata.
Avvertita dell'arrivo, la moglie di Eraclio mosse, ansiosa, ad incontrarlo, ma, quando scorse l'infame mago, accesa di sdegno, lo apostrofò:- " Uomicciolo sporchissimo, tu sei quello che hai fatto viaggiare mio marito in Sicilia con tanto travaglio?! ". E in ciò dire gli sputò in faccia.
Eliodoro ebbe un ghigno satanico: - " Ti farò ben presto pentire di avermi ingiuriato, e con tua somma vergogna ! " - la minacciò. E mantenne, infatti la promessa: in quel momento stesso, in tutta la città e vicinanze, per un raggio di oltre venti miglia, si estinse ogni fuoco, senza che alcuno riuscisse a ottenere nemmeno una scintilla. La confusione, come è da immaginarsi, fu enorme, ma grande fu altresì la meraviglia, quando si vide il fuoco generato solo dalle parti posteriori della moglie di Eraclio.
Per tre giorni consecutivi, fu d'uopo che essa rimanesse nella pubblica piazza, affinchè ognuno si provvedesse della necessaria fiamma. Nuovamente ricondotto dinanzi al carnefice, Eliodoro, mentre stava per ricevere il colpo di grazia, si rese straordinariamente piccolo: entrò per la manica destra del carnefice e ne uscì dall'altra, gridando: " Scampai la prima volta; questa è la seconda. Se mi volete, cercatemi a Catania! ". E disparve ancora, facendosi trasportare dagli spiriti nella inquieta città.
Ma a liberare quest'ultima dai suoi sortilegi, accorse, finalmente, il vescovo Leone detto il Taumaturgo (...sed tandem à Leone Catanensi Episcopo divina virtute ex improviso captus, frequenti in media Urbe populo, in fornacem igneam injextus, incendio consumptus est...).
Egli, infatti, dopo avere effettuata la distruzione del tempio consacrato alle due grandi divinità muliebri, Demetra e Cora, fino a quei tempi tanto venerate a Catania, decise di stroncare definitivamente la magìa giudaica di cui era esponente Eliodoro. Convocati perciò i fedeli nelle vicinanze delle Terme Achillee, dinanzi alla cappelletta eretta in onore di Maria Vergine, celebrò una solenne messa propiziatoria.
Si vuole che, oltre a molti Giudei e Gentili, si mischiasse tra la folla anche il temerario Eliodoro, il quale si mise a disturbare il sacro rito in tutti i modi: ingombrando la mente dei fedeli con allucinanti visioni; facendo apparire i calvi improvvisamente capelluti, e viceversa; altri con corna di cervo, di bue, di caprone, oppure con orecchie d'asino, con barba di montone, con rostro di uccello, con denti di cinghiale e altre stravaganti sembianze, in modo da generare il riso. Per ultimo, pretese di provocare il santo vescovo al ballo. Ma le sue nefande arti a ciò non valsero: terminata la messa, San Leone gli si avvicinò e gli gettò al collo la stola: "... Per Christum Dominum meum,nihil hic valebunt magicae artes tuae: deduxitque ad locum, cui nomen Achilleus, ibique flammis ad urendum dedit. Nec manum tuam, quae illaesa cum orario, mansit, ante subduxit, quam miser ille in cineres redigeretur. Sic itaque mos vir factissimus praesenti ope ab illius importunissimi magi periculis eripuit". Eliodoro, infatti, così esorcizzato, venne da S. Leone attratto nell'ardente fornace approntata in una fossa vicina alla chiesa. E mentre il Santo "...se ne uscì illeso, senza che il fuoco bruciasse, né denigrasse la stola e le vesti ", il mago divenne un mucchio di cenere, in men che non si dica. Il giusto castigo inflitto a Eliodoro è ricordato, ancora oggi, da due piccole tele che si conservano, rispettivamente, nella sacristia della Cattedrale e nel nostro Museo Civico (sala 28, terzo scomparto): la prima, dovuta al pittore trapanese Vincenzo Errante (sec. XIX); la seconda, proveniente dal monastero dei Benedettini, attribuita, da taluni, a Giuseppe Patania (pittore palermitano della fine del Settecento - inizio dell'Ottocento), da altri, al Velasques siciliano.
Quanto all'elefante che - sempre secondo la tradizione popolare - aveva servito ai prestigi del mago, quale portentosa cavalcatura per i suoi rapidissimi viaggi da Catania a Costantinopoli e viceversa, dopo essere stato lungamente dimenticato, venne ricondotto in città dai padri Benedettini del monastero di S. Agata e posto ad adornare un antico arco o porta, detta, appunto, "di Liodoro" o "di lu Liòduro".
Nel 1508, però, essendo stato completato il vecchio Palazzo di Città, la porta predetta, che si trovava alla sua destra, venne abbattuta e l'elefante posto sull'alto del prospetto della parte nuova dell'edificio, a settentrione, quale glorioso emblema della città, con la seguente iscrizione: Ferdinandus. Hispaniae utriusque. Siciliae. Rege - Elephans erectus fuit a Cesare Jojenio - Justitiario - MDVII
Dopo il terremoto del 1693, l'elefante giacque ancora in abbandono, finchè, nel 1727, l'olandese Filippo d'Orville, trovandosi di passaggio da Catania, sollecitò che esso venisse riinnalzato, insieme all'obelisco egizio che adesso lo sormonta.
Il voto si compiva nel 1736, ad opera di Giambattista Vaccarini, il quale, con la visione berniniana di Piazza della Minerva di Roma dinnanzi agli occhi, realizzò con essi la monumentale fontana di Piazza Duomo. Una iscrizione, a tergo del monumento, ricorda ai catanesi: " D.O.M. - Vetus Catanae insigne - elephas - ab aequitate prudentia docilitate - Urbem clarissimam eiusque cives - commendat - hoc ut lateret neminem eiusdem - ex aetneo lapide simulacrum - Heliodori olim praestigys celebre - S.P.Q.C. - Docto oneri substratum voluit - Anno MDCCXXXVI".
Oggetto di frizzi e motti, non sempre benevoli, fin da quando gli venne assegnato l'attuale posto, al "Diotru" o "Liotru", ancora ai tempi nostri, i poeti dialettali della città rivolgono invocazioni e preghiere di un genere tutt'affatto differente da quello usato ai tempi del mago Eliodoro.
In conclusione: astraendo dalla leggenda, nella figura di Eliodoro si può anche vedere l'ultimo sprazzo di quel pensiero filosofico che nella nuova dottrina ravvisava i germi che furono causa del decadimento delle antiche virtù.
E se, come si crede, l'elefante, rovesciato fuori la cinta delle mura, continuò a essere oggetto di culto da parte degli abitanti del bosco, assurgendo a simbolo della restaurazione dell'antico pensiero religioso tentata da Eliodoro, non v'è dubbio che fra quest'ultimo e le ancora paganeggianti popolazioni si sia stabilita quella corrente spirituale comune per la quale il popolo, scomparso Eliodoro, continuò a ricordarne il nome in quello che fu l'emblema della vecchia fede: il "Liotru".